Bordignon, Elena: Report del convegno Utopian Display 2017

PETRA FERIANCOVA Petra Feriancová inizia il suo intervento in silenzio. Lascia che i suoi pensieri, proiettati su uno schermo, vengano letti anziché essere ascoltati. Nel suo lavoro ha indagato gli archivi e il meccanismo di sottrazione e visibilità delle immagini. Ogni nuova realizzazione è orientata verso un genere di connessione tra l’universo di un’esperienza personale e i processi impersonali di individualizzazione – processi condizionati da un punto di vista storico, culturale e sociale. Un esempio è il progetto espositivo Still the Same Place per il padiglione della Repubblica Ceca e Slovacca alla Biennale di Venezia del 2013: in questa occasione Feriancova lavora sull’esposizione dell’archivio, di per sé non visitabile, mostrando tutto ciò che il padre le aveva lasciato attraverso un’architettura inaccessibile. Dal suo punto di vista il display è uno strumento di manipolazione, poiché manipola, con grande libertà, sia ciò che espone sia il visitatore. full article. UTOPIAN DISPLAY: Props & Tools — Report del convegno Hanno partecipato con le loro esperienze Céline Condorelli, Luca Frei, Josef Dabernig, Petra Feriancova, Falke Pisano, Can Altay, Marko Tadic e Liu Ding. Il seminario Utopian Display: Props and Tools, a cura di Marco Scotini – e promosso da NABA – si è svolto il 29 novembre presso FM Centro per l’Arte Contemporanea ed è stato il primo appuntamento di un nuovo ciclo di attività dedicate all’exhibition making. Il convegno riprende il discorso avviato nel 2003 da Utopian Display Platform, un progetto di Scotini in collaborazione con Maurizio Bortolotti, il cui scopo era indagare l’ambito della curatela. Solo ora, con un format rinnovato, apre al display, ai pubblici, alle forme di comunicazione e agli apparati delle istituzioni. Il display, sostiene Scotini nell’introduzione al convegno, oggi dovrebbe essere qualcosa che racconta l’opera ma che non si identifica con essa. E quindi instaura un rapporto straniante tra narratore e oggetto della narrazione. In rapporto a ciò il termine props presente nel sottotitolo del convegno richiama il metodo teatrale di narrazione teorizzato da Bertolt Brecht nel 1940 nel suo testo Strassenszene. In gioco è il diverso modo di raccontare un incidente stradale da parte di testimoni esterni, che non si identificano con esso. Il termine tools invece definisce un approccio al display in termini linguistici: si mostra che si sta mostrando qualcosa. Il display, una volta affrancato dal dovere di sostenere l’opera d’arte, libera il proprio potenziale del mostrare in quanto tale – in un’accezione positiva da cui deriverebbe la sua componente intrinsecamente politica. Ed è proprio di questa componente dell’exhibition making che Céline Condorelli, Luca Frei, Josef Dabernig, Petra Feriancova, Falke Pisano, Can Altay, Marko Tadic e Liu Ding hanno discusso. Moderati da Andris Brinkmanis ed Elvira Vannini, che si sono richiamati all’autore come produttore in Walter Benjamin e al rimosso dell’esposizione di Mary Anne Staniszewski. CELINE CONDORELLI Celine Condorelli affronta il concetto di sostegno e supporto in tutte le loro numerose declinazioni, interrogando continuamente il linguaggio dello spazio. Nella sua pratica cerca di integrare tutti quegli oggetti che sono considerati fuori dall’ambito culturale. Perciò reinserisce o rielabora elementi abitualmente presenti nei musei prima dell’avvento del White Cube, come piante e panchine, utili a far sentire lo spettatore accolto nello spazio della cultura. Condorelli lavora sulla scultura come idea espansiva e la rende una possibile infrastruttura in grado di modulare la percezione della mostra (attraverso il suono, la ventilazione, la temperatura, la luce…). Il suo approccio artistico segue l’idea di Kiesler secondo cui non è possibile scindere il framework fisico dall’impalcatura ideologica dell’opera; pertanto anche il display diventa un soggetto sociale e la sua realizzazione un atto politico. Questa concezione emerge anche nelle sue ultime sculture “additionals”, oggetti che possono assumere diversi ruoli e funzioni, e in Conversation pieces, delle sculture per bambini (tutt’ora in mostra a Stroom Den Haag) che, al termine dell’esposizione, verranno restituite alla città come infrastrutture di gioco nei cortili. LUCA FREI Con We do not work alone, Luca Frei non allude a un lavoro di gruppo per la realizzazione delle sue opere, bensì alle influenze esterne cui sono costantemente sottoposte. Frei parte da oggetti già esistenti per reinventarli e riscoprirli, misurandosi, quindi, con dei limiti strutturali che non costituiscono un ostacolo al processo creativo. Dialogo è un termine fondamentale per la sua concezione artistica, secondo la quale il display non è altro che una continua conversazione con curatori e artisti, ma anche con oggetti, opere e spazio e con differenti nozioni di tempo. In quest’ottica, è fondamentale l’influenza dell’opera sul display, che riesce a modificare la percezione della struttura stessa in sua assenza. A tal proposito, in occasione della sua collaborazione con Simone Forti (a Stoccolma nel 2016 e a Londra nel 2017), Frei ha modificato la performance e la sua stessa opera in modo che l’una potesse interferire con l’altra. La struttura può “vivere” anche senza la performance in atto. Per Frei, dunque, il display rappresenta un elemento che talvolta sparisce, talvolta è funzionale e, talvolta ancora, è un mezzo in grado di attivare qualcos’altro. JOSEF DABERNIG Josef Dabernig inizia la presentazione dalle sue prime interazioni con lo spazio, risalenti agli inizi degli anni Ottanta, che testimoniano un precoce interesse verso l’architettura. Il suo modo di intervenire sullo spazio espositivo, in pochi anni, passa dalla complessità appena decifrabile delle strutture a quella semplice, lineare e adattabile delle stesse. Un esempio è la progettazione del display per la mostra di Igor Zabel Individual Systems per la Biennale di Venezia del 2003: affascinato dall’architettura modernista, Dabernig crea sistemi al contempo rigidi e flessibili, in dialogo con lo spazio circostante. Come il vocabolario del musicista è formato da voci e strumenti, come quello del poeta è formato da parole e sintassi, nel suo caso, sostiene Dabernig, il vocabolario è formato da muri, piedistalli e dispositivi. E con questo vocabolario cerca di comunicare attraverso sistemi che in un contesto estetico-funzionale rispecchiano aspetti significativi della realtà, quali la natura e le sue regole, la politica o l’economia. Nell’arte, conclude Dabernig, la struttura ha un valore di riconoscimento. Spetterà al fruitore coglierne il significato. PETRA FERIANCOVA Petra Feriancová inizia il suo intervento in silenzio. Lascia che i suoi pensieri, proiettati su uno schermo, vengano letti anziché essere ascoltati. Nel suo lavoro ha indagato gli archivi e il meccanismo di sottrazione e visibilità delle immagini. Ogni nuova realizzazione è orientata verso un genere di connessione tra l’universo di un’esperienza personale e i processi impersonali di individualizzazione – processi condizionati da un punto di vista storico, culturale e sociale. Un esempio è il progetto espositivo Still the Same Place per il padiglione della Repubblica Ceca e Slovacca alla Biennale di Venezia del 2013: in questa occasione Feriancova lavora sull’esposizione dell’archivio, di per sé non visitabile, mostrando tutto ciò che il padre le aveva lasciato attraverso un’architettura inaccessibile. Dal suo punto di vista il display è uno strumento di manipolazione, poiché manipola, con grande libertà, sia ciò che espone sia il visitatore. Future Anecdotes (Aslı and Can Altay) The Way beyond Art, 2017 Collection Display of Van Abbemuseum (Photo Peter Cox) Future Anecdotes (Aslı and Can Altay) The Way beyond Art, 2017 Collection Display of Van Abbemuseum (Photo Peter Cox) FALKE PISANO Falke Pisano presenta una breve versione di uno dei suoi ultimi lavori, Wonder-What-Time-It-Is (2017). Partendo da una semplice domanda: “Che ore sono?”, esamina non solo il concetto del tempo, ma anche le strutture del pensiero costruite attraverso la storia del modernismo, e come queste plasmano il linguaggio e la percezione. Attraverso la sua performance narrativa, l’artista si chiede se esiste veramente un tempo standardizzato, che in realtà è stato inventato in Gran Bretagna nel 19° secolo, e se può essere un concetto imposto in un modo da consentire ad alcune persone di dominare gli altri. Quindi mette in discussione quelle idee diventate potenti proprio perché sono state naturalizzate nella cultura occidentale attraverso una storia. Ispirata al racconto di Edgar Allen Poe “Il diavolo nel campanile”, la storia è ambientata in una piccola città immaginaria chiamata Vondervotteimittiss, dove la vita è controllata da un campanile. I residenti, tutti di origine olandese, hanno regolato i propri orologi sul suono delle campane, fino a quando un estraneo attacca l’uomo del campanile e sconvolge l’orologio. In un contesto più ampio, l’opera riflette il suo interesse per il colonialismo e i limiti della modernità, invitando il pubblico a contemplare come si sviluppano gli aspetti della vita che consideriamo neutrali, come il tempo e il linguaggio. CAN ALTAY Can Altay mira a una riflessione sui fenomeni urbani e sulla configurazione degli spazi pubblici, e come questi sono abitati e regolamentati. I concetti di limiti, confini, territorio e di occupazione dello spazio e del tempo sono ricorrenti nella sua ricerca. Le installazioni o settings, come le definisce Altay, generano l’innesco per far vivere lo spazio in modo diverso. Si tratta di opere a tempo indeterminato, che invitano il pubblico a contribuire e a creare un significato imprevisto. In particolare, Altay si sofferma su Ey Ahali! / Setting a setting / Letting a Setting Go (2007), realizzata a Spike Island nel Regno Unito, una piattaforma costituita da sistemi audio e strumenti che musicisti, artisti e altri produttori culturali hanno suonato. Inoltre, in occasione di PARK: bir ihtimal (PARK: a possibility, 2010), Altay invitato i suoi studenti e il Park Collective a pensare possibili interventi da attuare nel parco. Pertanto hanno realizzato eventi, un’audioguida, e altri interventi che hanno messo in discussione le modalità con cui intervenire in uno spazio pubblico e come questo possa tornare a vivere. Un altro capitolo importante nella presentazione di Altay è Rogue Game, iniziato nel 2007 con Sophie Warren e Jonathan Mosley, e poi modificato nel tempo. Questo lavoro consiste in un campo sportivo le cui linee, di colori diversi, descrivono i limiti di ogni gioco. Quindi, nello stesso spazio e nello stesso tempo si svolgono tre giochi, tanto che i giocatori si scontrano e sviluppano un nuovo ritmo. Ancora una volta, conclude Atlay, è evidente l’idea dei confini e di come ci comportiamo davanti a essi. MARKO TADIC Marko Tadic apre l’intervento a partire dalla sua educazione in ambito filosofico, da cui deriva l’interesse verso la costruzione di mondi utopici tramite materiali di recupero. La gestione degli spazi urbani e l’architettura di strutture geometriche instabili sono al centro della questione: la durevolezza incerta, afferma Tadic, è un topos a cui lui non può rinunciare. Un esempio è il progetto The gap between: un tavolo su cui ogni settimana viene ricostruita un’architettura precaria fatta di sabbia e cartone. In occasione della Biennale di Venezia di quest’anno, Tadic ha proposto nel padiglione croato una struttura in legno che potesse mostrare simultaneamente il progetto video e le documentazioni di ricerca effettuate per realizzarlo. Il pubblico in tal modo ha avuto la possibilità di esplorare lo spazio, cambiando radicalmente il proprio ruolo all’interno dell’opera. LIU DING Liu Ding parla della grande eredità storica e artistica della Cina e delle modalità con cui viene gestita. Ha iniziato la sua presentazione con un piccolo documentario che mostra un gruppo di giovani artisti nel 1979, conosciuto come The Stars, che, censurati dal governo e cacciati dal museo, decidono di installare le loro opere all’esterno. Secondo Liu Ding questo episodio segna l’inizio dell’arte contemporanea in Cina. La presentazione prosegue con l’analisi del progetto curatoriale realizzato con Carol Lu Yinghua: “Salon, Salon. Pratica delle belle arti dal 1972 al 1982 a Pechino”, una mostra ricca di materiale d’archivio, immagini e testi di tutti gli artisti che non avevano aderito ai modi della Rivoluzione Culturale. Liu Ding sottolinea l’importanza del progetto perché di questi anni, gli anni della rivoluzione culturale in Cina, sotto un regime totalitarista, non esistono tracce. I vari testi sono stati raccolti da Antonia Algeri, Mariateresa Lattarulo, Cecilia Meroni, Adriana Tomatis e Ezgi Yurteri
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